Come avvenivano la campagna elettorale e le elezioni nell’antica Pompei? C’erano le “amministrative”, con le quali i municipia e le coloniae (dunque le autonomie locali) eleggevano le coppie dei loro “sindaci”, chiamati – a seconda i casi – duoviri, quattuorviri, aediles, e soprattutto non mancava – per entrambi i tipi di elezioni – una campagna elettorale spregiudicata, fatta di promesse, colpi bassi e corporazioni in azione per favorire i propri garanti. A Pompei, sommersa e paradossalmente “protetta” dalla colata lavica del Vesuvio nel 79 d.C., la lava ci ha anche miracolosamente preservato scritte per lo più dipinte relative a elezioni locali, “amministrative” diremmo noi. E senza dubbio vale la pena di leggerne qualcuna, tra le centinaia ancora oggi distinguibili (qui proposte tutte nella traduzione di L. Canali e G. Cavallo, Graffiti latini, Bompiani, Milano 1991); ed erano talmente tante che – su una parete della Basilica – c’è scritto: “Admiror, paries, te non cecidisse ruina / qui tot scriptorum taedia sustineas”, “Mi meraviglio, o muro, che tu non sia crollato in rovina, / tu che sostieni il peso di tanti slogan elettorali” (CIL IV, 1904).
In effetti, in procinto delle elezioni, i muri pompeiani diventavano una sorta di Porta a Porta ante litteram, o forse meglio un twitter dove, singoli o gruppi facevano propaganda per questo o quell’altro candidato. Ad esempio: “Cuspius Pansam / aedilem Fabius Eupor princeps libertinorum”, “Fabio Eupore, capo dei liberti, (propone) / Cuspio Pansa come edile” (CIL IV, 117). E lo stesso Cuspio Pansa era supportato in quell’elezione – non sappiamo con che forza contrattuale – dalle lobby degli orefici, poiché leggiamo su una parete: “C. Cuspium Pansam aedilem / aurifices universi / rogant”, “Gli orefici tutti / propongono / G. Cuspio Pansa edile” (CIL IV, 710). Diverse altre scritte (tutte di poco anteriori al 79 a.C.) inneggiano ad altri politici locali o li deridono: niente di nuovo, no? Infatti, troviamo una lode esagerata delle virtù di un tale Lucrezio Frontone o la speranza che Gaio Iulio Polibio, eletto, non manchi di ricompensare con “pane buono” i suoi elettori. Leggiamo dunque: “Si pudor in vita quicquam prodesse putantur / Lucretius hic Fronto dignus honore bono est”, “Se si ritiene che la virtù valga qualcosa nella vita, / Lucrezio Frontone è degno di essere eletto alla carica”(CIL IV, 6626). Oppure: “C. Iulium Polybium / aedilem oro vos faciatis. Panem bonum fert”, “Vi prego di eleggere edile / G. Giulio Polibio. Porta pane buono”(CIL IV, 429). Invece un’anonima quanto perfida mano non perdona all’edile Proculo la sua omosessualità, e lo definisce sarcasticamente Procula, con desinenza femminile; inoltre – con procedimento antifrastico – sembra proporlo impietosamente come esempio di pudore e rispetto: “Aedilem Proculum cunctorum turba probavit: / hoc pudor ingenuus postulat et pietas”, “Tutto il popolo ha approvato Procula come edile: / ciò è richiesto dal nativo pudore e dal rispetto”(CIL IV, 7065). Senza forzose confusioni tra passato e presente, proporre qualche esempio della campagna elettorale d’altri tempi possa essere di un qualche interesse. Magari accompagnando il tutto con qualche lettera di Plinio il Giovane (inizio del II sec. d.C.), nella quale egli – illustre senatore – dispensa a destra e a manca raccomandazioni per rampolli di nobili amici – “delfini” di famiglia – che vogliono “salire in politica” sia a livello locale sia a livello centrale. Ad esempio in Epistulae 7, 22 il comasco Plinio scrive a un suo pari, il nobile Pompeo Falcone, per raccomandargli al tribunato militare un giovane transpadano, e cioè Cornelio Miniciano, originario di Bergomum. Il giovanotto è definito “ornamentum regionis meae seu dignitate seu moribus”, “vanto della mia terra, per prestigio e costumi”, e “natus splendide abundat facultatibus, amat studia ut solent pauperes”, “benché sia nato ricco e abbondi di risorse, egli ama gli studi come sogliono amarli i poveri”. Insomma è sì un figlio di papà ma non uno scansafatiche! Sappiamo per certo che Miniciano ottenne il tribunato – carica militare riservata ai giovani, necessario trampolino per un seggio di reale potere – ma che poi non “sfondò” nei palazzi romani e mai divenne senatore nell’Urbe: insomma, una raccomandazione riuscita a metà. Simulazione e dissimulazione, ipervisibilità personale, attenzione ai “poteri forti”, scritte sui muri, attacchi agli avversari (perfino l’ironia dei loro gusti sessuali), “delfini” rimasti “trote” o forse solo pesciolini rossi e infine raccomandazioni in grande quantità. A questo punto non restava altro che votare. Un po’ come oggi, il corpo degli elettori era suddiviso in sezioni, grossomodo corrispondenti ai quartieri in cui era divisa la città di Pompei. Ci sono solamente ipotesi circa i nomi e il numero di queste circoscrizioni ma dovevano essere più di quattro. Con tutta probabilità si faceva riferimento al quartiere di nascita per definire l’appartenenza a una determinata sezione. Nel giorno stabilito per la convocazione dei comizi elettorali, i cittadini si recavano al foro per esprimere le proprie preferenze, scaglionati in base alle loro circoscrizioni. Esisteva un edificio destinato alle elezioni a Pompei, il comitium, già suddiviso in un numero di settori corrispondenti alle sezioni. Il voto (suffragium) era espresso per iscritto (per tabellam), mediante una tavoletta cerata sulla quale l’elettore incideva i nomi dei candidati con uno stilo. Questa scheda era poi inserita in un’urna (arca) piazzata all’interno della propria sezione. La vigilanza sul corretto svolgimento dell’operazione era a carico dei rappresentanti di altre sezioni. A sovrintendere il tutto era il duumvir più anziano in carica. Prima del voto erano eseguiti i controlli sui singoli votanti da un funzionario addetto (rogator). Egli, aiutato dai responsabili di ogni circoscrizione (curatores tribuum), verificava che i cittadini fossero regolarmente iscritti al registro degli aventi diritto al voto. Tale prerogativa accomunava tutti i maschi adulti, di condizione libera, residenti a Pompei. Ad avvenuta verifica era poi consegnato loro un gettone (tesserula), che andava esibito al momento del voto. Lo spoglio delle schede era fatto immediatamente dopo il voto di ogni sezione dagli scrutatori (diribitores). A far fede non contava il numero assoluto delle preferenze, bensì la maggioranza delle sezioni. Capitava spesso così che le operazioni di spoglio fossero sospese prima del conteggio totale dei voti, non appena si raggiungeva la maggioranza. I quattro nomi (due per il duovirato e due per l’edilità) che erano vincitori nel maggior numero delle sezioni venivano alla fine designati ufficialmente. Il popolo aveva scelto, poteva iniziare così la scalata al potere.