
Domenica 30 aprile ritorna il Discorso alla Città, intervento che il vescovo mons. Giuseppe Giudice tiene in apertura del novenario in onore di san Prisco, patrono della Diocesi e della Città di Nocera Inferiore. L’appuntamento è alle ore 20.00 nella Cattedrale di Nocera Inferiore. Il tema scelto per l’edizione 2023 è «…in una città chiamata Nazareth (Mt 2, 23): la profezia del quotidiano».Una riflessione che vuole aiutare a cogliere le risorse e la bellezza del quotidiano, dell’ordinario, del giorno per giorno, a cui sempre basta la sua pena e la sua gioia. Il Discorso che il Vescovo rivolge alla Città, la Terra dell’Agro, vuole servire ad allargare l’intelligenza e il cuore di tutti e donare una parola profetica che possa accompagnare il cammino del popolo che vive e anima questo territorio. All’incontro sono state invitate le istituzioni civili e militari che operano nei Comuni del territorio diocesano, le associazioni ecclesiali e laicali, quanti sono impegnati nelle attività di servizio e promozione della società civile, l’intera comunità diocesana.La pronuncia del Discorso sarà inframezzata dagli interventi musicali della corale “San Biagio Vescovo e Martire” di San Marzano sul Sarno.
Il contenuto del Discorso ovviamente non lo conosciamo ancora. Partendo però da” in una città chiamata Nazareth (Mt 2, 23): la profezia del quotidiano”, possiamo addentrarci in qualche previsione, segnalando l’interpretazione data non molto tempo fa al passato citato da Giudice da parte di Enzo Bianchi, già Priore di Bose. Non si può infatti dimenticare che questa pagina di Matteo, presentando la migrazione forzata di Giuseppe con la sua famiglia, si presenta come capace di stringente attualità. La esprimo con le parole di papa Francesco nell’omelia della notte di Natale del 2017: “Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene, ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente”.
L’infanzia di Gesù è segnata da minacce, ostilità e inimicizie che costringono i genitori del bambino a migrare in Egitto: un’ombra di morte viene proiettata sul bambino da poco venuto alla vita. La prima domenica dopo Natale presenta l’evento dell’incarnazione nel suo riflesso sulla famiglia in cui Gesù è nato e cresciuto. Se dunque il tema della famiglia appare rilevante in questa domenica, va però detto – per sfuggire alle possibili cadute retoriche e devozionali connesse all’idealizzazione della famiglia e della “sacra” famiglia, e anche alle derive e agli sfruttamenti ideologici o politici a cui questo tema sensibile va oggi soggetto – che, nell’economia cristiana, e per la parola stessa di Gesù, la realtà decisiva è la nuova famiglia di Gesù, quella dei suoi discepoli radunata attorno a lui dall’annuncio della Parola di Dio e che si fonda non su legami di sangue, ma sul “fare la volontà di Dio” (cf. Mt 12,46-50).
Il testo evangelico intende certamente mostrare che Gesù ripercorre il cammino di Israele, “il figlio di Dio” (“Israele è il mio figlio primogenito”: Es 4,22), scendendo in Egitto e poi ritornando in terra d’Israele. Vi è come il riepilogarsi dell’intera storia di salvezza nella persona e nella vicenda di Gesù. La storia della salvezza avviene attraverso storie particolari, storie di nomi e di volti, storie famigliari, attraverso quel reticolo di relazioni quotidiane di cui è intessuta l’esistenza umana. E passa attraverso la salvezza di storie e relazioni quotidiane: salvando la propria famiglia dal pericolo incombente, Giuseppe salva anche la storia della salvezza di Dio con l’umanità tutta. Salvare una vita è salvare il mondo.
E qui va detto che Gesù, nel nostro testo appare oggetto di salvezza. Lui è salvato, sottratto al massacro che Erode compirà dei bambini al di sotto dei due anni, grazie all’azione di Giuseppe. Questi, prendendo con sé il bambino e sua madre e scendendo in Egitto e poi facendo il cammino a ritroso, come in un nuovo esodo, svolge quel compito di presenza e di protezione proprio del genitore e che permette al bambino di attraversare quelle contraddizioni e difficoltà dell’infanzia – che potrebbero segnare in modo pesante il suo futuro – avendo conosciuto amore e accudimento. Avendo conosciuto, direbbe Winnicott, una madre e, aggiungiamo noi, anche un padre, sufficientemente buoni. La famiglia appare come spazio di trasmissione di fiducia, come luogo di insorgenza della fiducia basilare grazie alla presenza attenta e securizzante dei genitori. Ma, nel nostro testo, la storia famigliare si colora di tinte teologiche. Il decreto di Erode che ordina lo sterminio dei bambini sotto i due anni è ripresa e rievocazione, rimando e rinvio, secondo la tecnica ebraica del midrash, al testo dell’Esodo in cui si narra lo sterminio ordinato dal faraone dei figli maschi degli Ebrei (Es 1,15-22). A quello sterminio Mosè fu sottratto venendo prima tenuto nascosto per tre mesi, poi, essendo stato abbandonato su una cesta sul Nilo, venendo trovato e adottato dalla figlia di Faraone che lo chiamò Mosè, dicendo: “Io l’ho salvato dalle acque” (Es 2,10). Anche Gesù è stato salvato. La tipologia di Mosè si riflette su Gesù. Colui che “salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21) è colui che è stato salvato lui stesso, che ha conosciuto nella sua carne l’esperienza di essere salvato.
Certo, a differenza di Mosè, che non entrò mai nella terra promessa, Gesù vi entrerà. Anzi, Matteo specifica in tre tappe il rientro di Giuseppe, Gesù e Maria: terra d’Israele (Mt 2,21); regione della Galilea (Mt 2,22); città chiamata Nazaret (Mt 2,23). E proprio l’approdo ultimo di Gesù in terra d’Israele, ovvero la cittadina di Nazaret, località mai nominata né nell’Antico Testamento né nel Talmud, fornisce a Matteo l’occasione per mostrare come in quella storia di inimicizia e crudeltà, di sofferenza e di stenti, si cela il realizzarsi della storia di salvezza. L’insediamento a Nazaret è volto al compiersi di quanto detto dai profeti: “Sarà chiamato Nazareno” (Mt 2,23). Il significato di questo appellativo è dibattuto. Un primo significato è che indichi Gesù come colui che ha avuto Nazaret come luogo di infanzia e adolescenza. Tuttavia è più probabile che il termine contenga risonanze diverse che vengono svelate da possibili allusioni ad alcuni testi veterotestamentari. Per esempio, il vocabolo potrebbe essere riferimento alla parola ebraica che in Is 11,1 indica il “germoglio”, termine che designa il Messia. Oppure che significhi “nazireo”, “consacrato”, “santo”. O ancora che significhi “salvato”, “preservato”, “superstite”, in riferimento a un termine che ricorre in Is 49,6. E quest’ultimo riferimento ci rinvierebbe ancora all’esperienza di salvezza conosciuta da Gesù stesso. Quel che è certo è che per Matteo la storia della salvezza che Dio conduce con gli uomini passa attraverso vicende oscure e tenebrose, vicende in cui male e prepotenza, violenza e crudeltà hanno la meglio portando la morte a tanti innocenti (Mt 2,16-18) e costringendo tanta povera gente a esodi forzati.