Nel giro di tre anni la redazione di Napoli cambiò volto. Sfruttai tutte le occasioni per prendere giovani a bottega. Ne avevamo un gran bisogno, per rompere con le fissità “dei vecchi” (relativamente “vecchi”, all’epoca erano sui 40 anni). Il problema di Napoli era in realtà atipico per questo si poneva in modo così acuto la questione giovani-vecchi. Mentre a Roma o a Milano dopo aver fatto un’esperienza di cronaca si passava agli interni, agli esteri, allo sport insomma si cambiava, a Napoli un cronista restava tale per tutta la vita. Non era in uso nessuna “mobilità verso Roma” nè avrebbe avuto senso, visto che quei giornalisti erano ben radicati nella città. Pian piano e senza traumi fu possibile una rivoluzione. Antonio Polito e Marco De Marco già c’erano.Un giorno arrivò Andrea Geremicca con due ragazzi. Uno era il figlio, Federico, e l’altra era la sua fidanzatina di allora. Una scena quasi surreale nella mia stanza. E il solito “stile” di Andrea: ti presento Federico, vuol fare il giornalista, vedi se è capace. Arrivò poi anche un’altra figlia illustre, Valeria Alinovi, che si sentiva tuttavia più scrittrice che giornalista. Da Aversa spuntò Vito Faenza, già eroe della sua squadra di volley, che si rivelerà un cronista dalla prosa ruvida, dalla parlantina fin troppo fluente, ma instancabile cercatore di notizie. Arrivò anche Marina Maresca, che poi fu assunta dopo qualche tempo alla cronaca di Roma del giornale.
All’ufficio stampa della Festa Nazionale de l’Unità (che quell’anno si tenne alla Mostra d’Oltremare) pescai invece Marcella Ciarnelli (famosa per la sua lingua che non faceva sconti a nessuno) e Gigi Vicinanza, che aveva lavorato con Polito in un giornale di Castellammare di Stabia ed era stato lasciato fuori dall’Unità fino a quel momento perché “due di Castellammare sono troppi”. Tra i tanti che hanno lavorato con me, Gigi è quello che ho più stimato, perché ha uno stile “anglosassone”, dolcissimo, mai una parola di troppo, mai una sgomitata al concorrente. Con tutti quei ventenni in giro, pur nella tensione dell’apprendistato, a via Cervantes non mancava l’allegria. Ricordo un sabato pomeriggio estivo. Il sabato noi chiudevamo presto. Marco quel pomeriggio voleva chiudere ancora prima perché aveva programmato un week end a Ischia con la sua ragazza. Marco allora era estensore di nera e noi avevamo, nella sala stampa della questura, Giulio Formato, il più “vecchio” dei “vecchi”, uno “zio” per tutti, quello che ti dettava cinque nere e poi diceva: “tre non le scrivere, sono i poliziotti che si fanno i pompini”. L’autorità di Giulio era, comunque, indiscutibile e così alle 16 in punto chiamò Marco, già pronto a scappare, e gli disse laconicamente che c’erano problemi su un traghetto del golfo. “Ti dico quando ne so di più”. Dopo 10 minuti un’altra telefonata. Il traghetto andava ad Ischia e aveva oltre 100 passeggeri e chissà quanti uomini di equipaggio. Probabilmente era affondato. Marco mi racconta tutto, io disegno un nuovo menabò, fingo di avvertire la nazionale e di chiedere un pezzo, fingo di dare disposizioni agli altri per i “pezzi” di “appoggio” e tutti fanno finta di mettersi a lavorare. Ma Giulio è implacabile e detta a Marco tutti e cento i nomi e i cognomi degli imbarcati. E lui scrive, prende appunti, scrive. Giulio inventa anche storie toccanti: periti due sposini in viaggio di nozze. A questo punto lo stato d’animo di Marco era fatto da due stati d’animo. Il giornalista di fiuto che è sempre stato era “esaltato” per quell’incredibile affondamento, in cui confluivano come per miracolo tutti i “topos” della nera. Il fidanzato era invece ansiosissimo di piantare tutto e correre al sole di Ischia. Ci pensammo noi a mettere d’accordo i due Marchi, quando – dopo un’ora e oltre – prorompemmo in un’omerica risata, all’ultimo “intarsio” che si era inventato Giulio. E poi c’era la politica, con la “nostra” giunta da difendere. Un’amministrazione che era partita alla grande: palazzi abusivi abbattuti, onestà e trasparenza a piene mani.
Tra il 1975 e il 1976, dopo un anno di amministrazione Valenzi, il Pci era passato a Napoli dal 33% al 40%, in pratica quasi un napoletano su due votava comunista. Una specie di miracolo. Ma un miracolo che contagiò negativamente il partito e gli amministratori. Palazzo San Giacomo infatti, sede del Comune, divenne meta di disoccupati organizzati, che evitavano di raggiungere, invece, le sedi di Prefettura e Regione (amministrata dalla Dc). Il governo, così, non si misurava con il dramma del lavoro (o del “posto”, perché molto ci sarebbe da scrivere su quella vicenda). Il comune sì. Ci si illuse di spegnere l’incendio con un secchiello, si avviarono faticosissime trattative con “le liste di lotta”, promettendo qualche centinaia di assunzioni, quando le richieste erano di migliaia. In questa fatica di Sisifo era particolarmente impegnato Andrea Geremicca, che qualche volta ci chiedeva anche in prestito una stanzetta della redazione per incontrare “in campo neutro” i capi dei disoccupati organizzati, che del resto noi avevamo, ogni giorno sotto le nostre finestre, dato che via Cervantes sbuca in Piazza Municipio. E noi? Non ce la cavavamo “raccontando” e spiegando ai dirigenti del Pci che se i fatti accadevano era impossibile ignorarli.
I rapporti divennero, poi, via via più stretti con Bassolino, che da segretario regionale era un po’ il referente naturale di una cronaca anch’essa regionale. Anche perché Antonio faceva e lasciava fare; proponeva ma era rispettoso del lavoro altrui. E vedeva lui stesso le difficoltà politiche crescenti. Ricordo di aver fatto più di un girotondo, con lui, attorno ai palazzi del centro.
E lui diceva: “Che dobbiamo fare? Passare all’opposizione?” E io rispondevo: “Sì, questa giunta tenuta assieme a tutti i costi non porterà da nessuna parte”. E lui rifletteva incupito.
Restammo così in mezzo al guado per un tempo lunghissimo. Valenzi continuava ad essere un mito per i napoletani e ad ogni elezione aumentava i suffragi personali. Ma la sua giunta continuava a perdere colpi. E con essa il Pci. Eppure non ci piaceva per nulla come i grandi quotidiani nazionali trattavano Napoli. Una metropoli ricca di facce e molto complessa, con i suoi ricchi e i suoi poveri, i suoi centri di ricerca avanzatissimi e le sue fabbriche, finiva, invece, in prima pagina solo in negativo. Cercammo di reagire, di delineare una sorta di itinerario positivo “Qui c’è la stazione zoologica più avanzata d’Europa, l’Università, l’Aeritalia, ma pur lavorando a stretto contatto con alcuni degli inviati più bravi, il nostro “itinerario positivo” andò subito a farsi benedire.
Il terremoto prima e l’espansione della camorra subito dopo, esaltarono, d’altra parte, la vocazione della “cultura dell’emergenza”, che si impadronì degli stessi gruppi dirigenti della città e fece sì che anch’essi riflettessero un’immagine devastata della capitale del Sud. Era arrivato, intanto (o meglio era tornato, perché il direttore dell’Unità lo aveva già fatto a 30 anni) a dirigere l’Unità il mitico Alfredo Reichlin, il più bravo dei direttori che ho avuto o, comunque, quello che mi ha insegnato di più. Anche se il suo modo di “insegnare” era alquanto particolare.
Ricordo un pomeriggio semifestivo, con una Napoli deserta perché allo stadio San Paolo c’era una partita della nazionale italiana di calcio. Squilla il telefono. “Ti passo il direttore”. La sua voce caratteristica irrompe nella stanza. “Ma perché ti paghiamo, mi devi dire perché ti paghiamo!”. Credo che raramente un capo cronista si senta chiedere dal suo direttore perchè riceve ancora lo stipendio dal giornale. “La devo leggere su Repubblica la storia dei disoccupati di Napoli?” A quel punto presi il coraggio a due mani e replicai “Se vuoi la storia dei disoccupati di Napoli devi prendere la vera storia, perché nelle proteste di questi giorni c’entra anche il Pci, che ha avuto la sua parte nel lottizzare le assunzioni al Comune, tra le varie liste”. “E tu scrivila, scrivi la verità”.