Un pezzo di quella storia parte proprio dai più giovani. Con la pandemia che, a complicare ancora di più la situazione, ha lasciato segni profondi: oltre due giovani su tre che erano “neet” nel 2019 sono rimasti nella stessa identica condizione un anno dopo, oltre tre su quattro al Sud Italia o tra i giovani meno istruiti o stranieri. La propensione, mediamente ridotta, all’innovazione delle imprese italiane – una costante anche prima del biennio 2020-2021 – si accompagna infatti a investimenti ridotti sul capitale umano specifico delle nuove generazioni. Un circolo vizioso e dannoso per il paese.
Non a caso l’Italia è trainata dai più vecchi, in un cortocircuito che ci sta condannando. “Tra le forze attive del paese prevalgono le coorti più vecchie, nate fino alla metà degli anni ‘70, entrate nel mercato del lavoro in condizioni di maggiore stabilità e migliori tutele, andate via via riducendosi a seguito di una pervicace flessibilizzazione del mercato del lavoro – si legge nel report -. Il progressivo invecchiamento della popolazione e la necessità di ridurne i crescenti costi associati, in termini di pensioni, salute e assistenza sociale, sono stati prevalentemente affrontati in chiave istituzionale attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile, contribuendo all’aumento degli occupati tra le coorti più mature ma senza un’espansione generale, in un contesto economico stagnante, di buone opportunità occupazionali”.