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Non c’è rabbia che basti per spiegare cosa significhi vedere il dolore trasformato in spettacolo.
Ma non è (solo) una colpa individuale. È il sintomo più evidente di una malattia collettiva: una società che ha smarrito il limite, confondendo visibilità con valore, esposizione con elaborazione.
I social hanno trasformato tutto in contenuto da monetizzare Anche il lutto. Anche la morte di una ragazza di 14 anni.
Serve una risposta concreta, non basta l’indignazione.
Ecco una proposta concreta:

Se una persona vuole condividere il proprio dolore, ha il diritto di farlo.
Ma nessuno dovrebbe poter guadagnare visibilità o denaro da un lutto, da un omicidio, da un figlio perduto.

la diffusione di contenuti con l’immagine di minori senza consenso esplicito (non solo dei genitori, ma garantito da un ente terzo).

– Perché troppe volte il danno non lo fa l’algoritmo. Lo fa l’ignoranza.
Martina non tornerà.
Ma possiamo almeno evitare che il suo volto venga trascinato nei meccanismi perversi di un sistema che, senza regole, si nutre del dolore degli altri.
Non è censura. È rispetto.
È civiltà

@inprimopiano
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Non c’è rabbia che basti per spiegare cosa significhi vedere il dolore trasformato in spettacolo.
Ma non è (solo) una colpa individuale. È il sintomo più evidente di una malattia collettiva: una società che ha smarrito il limite, confondendo visibilità con valore, esposizione con elaborazione.
I social hanno trasformato tutto in contenuto da monetizzare Anche il lutto. Anche la morte di una ragazza di 14 anni.
Serve una risposta concreta, non basta l’indignazione.
Ecco una proposta concreta:

Se una persona vuole condividere il proprio dolore, ha il diritto di farlo.
Ma nessuno dovrebbe poter guadagnare visibilità o denaro da un lutto, da un omicidio, da un figlio perduto.

la diffusione di contenuti con l’immagine di minori senza consenso esplicito (non solo dei genitori, ma garantito da un ente terzo).

– Perché troppe volte il danno non lo fa l’algoritmo. Lo fa l’ignoranza.
Martina non tornerà.
Ma possiamo almeno evitare che il suo volto venga trascinato nei meccanismi perversi di un sistema che, senza regole, si nutre del dolore degli altri.
Non è censura. È rispetto.
È civiltà
