
Vi siete mai chiesti se siamo davvero liberi di scegliere la musica che ascoltiamo? È una domanda seria e, al tempo stesso, trabocchetto. Qualcuno potrebbe rispondere: “Certo, sono libero: ascolto solo ciò che mi piace alla radio o in TV”. Ahah, ma la proposta è davvero ampia? Certo che non lo è. Io lo so bene da anni, ed è per questo che ricerco materiale in luoghi diversi dalla radio e dalla TV. Anche il cantautore italiano Francesco Baccini, in alcune recenti interviste, ha manifestato il suo dissenso nei confronti dei cosiddetti “pastoni di musica pre-masticata”.
Già, in passato le radio trasmettevano centinaia di autori, cantanti e band diverse, ed era il pubblico a scegliere in base alle proprie preferenze. Oggi, sebbene sembri che il pubblico scelga ancora, la proposta è circoscritta a pochi artisti e a un numero estremamente limitato di brani. Baccini afferma: “Scelgono loro a monte cosa vi deve piacere… il pubblico è trattato come animali, rinchiuso in gabbie e costretto a mangiare la stessa cosa”.
Francesco Baccini ha aspramente criticato l’apparato mediatico che regola la musica trasmessa in radio e in tv, parlando di sistema truccato. Sono gli interessi, le connivenze e logiche di potere che decidono a priori cosa ascoltare, senza dare la possibilità all’ascoltatore di una valutazione libera e autentica. Lobby mediatiche e circoli politici usano la musica come strumento per mantenere il controllo, piuttosto come mezzo per esprimere verità e diversità artistiche.
Il pensiero di Baccini è condivisibile, anche se, a mio avviso, abbiamo il potere di rompere questo sistema. Siamo liberi di cercare
canali alternativi, percorsi nuovi, strade non battute, capaci di aprirci mondi magnifici e territori inesplorati. Non mi sono mai
sentito in gabbia, per mia natura: sono un curioso e un ricercatore. Posso affermare, con certezza, che io e Steve Jobs
condividiamo, almeno in parte, una visione comune: “Stay hungry, stay foolis”.
Quel “Rimani affamato, rimani folle” è un invito ad ognuno di noi a mantenere una sete insaziabile di conoscenza e a nonaccontentarsi mai dello status quo, cercando continuamente nuove idee, esperienze e opportunità. Bisogna conservare quella fame di apprendimento e miglioramento continuo, una mente aperta anche disposta a rischiare, abbracciando strade che possono apparire insolite o inusuali: non si teme il rischio di pensare fuori dagli schemi tradizionali.
Questa settimana, libero da ogni gabbia reale o immaginaria, ho intrapreso un viaggio stupefacente, emozionale e straordinario
– uno di quei viaggi da turista fai-da-te, sconosciuto ai migliori tour operator.È stato un percorso dolce, soave e sorprendente, un lungo e profondo cammino verso la meta: Beirut.
Beirut nasce dalla vena creativa di Zachary Condon, un artista che ha saputo fondere in modo originale folk, indie e world music.
Con la sua musica, Condon cerca di risvegliare emozioni profonde, attingendo da storie dimenticate e paesaggi sonori che travalicano i confini del tempo. Originario di Albuquerque, Nuovo Messico, ha abbandonato la scuola a 16 anni e ha intrapreso un viaggio in Europa, dove ha scoperto la musica folk balcanica, che ha influenzato profondamente il suo stile. La scelta del
nome “Beirut” è fortemente legata a un'intensa evocazione culturale e sonora: la capitale del Libano è storicamente stata un crocevia di influenze mediterranee, mediorientali e persino europee. Questo concetto rispecchia perfettamente la mescolanza di
suoni e atmosfere che Condon ha assorbito durante i suoi viaggi.
La città diventa così una metafora per un percorso sonoro che
attraversa territori e tradizioni diverse, superando i confini tradizionali della musica rock americana e invitando l’ascoltatore a
un’esperienza che va oltre ogni categorizzazione convenzionale.
Circa un mese fa, la band ha pubblicato A Study of Losses, un album che mi ha letteralmente rapito.
A Study of Losses è un vero e proprio viaggio meditativo, un’indagine sulla memoria, sulla perdita e sul potere di trasformare il dolore in bellezza. Il progetto si intreccia con forme d’arte contemporanea, essendo concepito come la colonna sonora di uno spettacolo acrobatico della compagnia teatrale svedese Kompani Giraff. Le fonti ispiratrici sono molteplici e affascinanti: il lavoro
trae spunto dal romanzo Verzeichnis einiger Verluste di Judith Schalansky, che racconta il continuo dialogo tra ciò che viene dimenticato e ciò che, nonostante il passare del tempo, rimane vivo nell’immaginario collettivo.
I titoli dei brani fungono da guide simboliche nel percorso interiore dell’ascoltatore. Alla base dell’album c’è un messaggio profondo: la perdita, lungi dall’essere una fine definitiva, rappresenta il terreno fertile su cui nascono nuovi significati e nuove emozioni. Composto da 11 brani cantati e 7 brani strumentali, l’album si configura come un mosaico di esperienze e riflessioni, invitandoci a meditare sul
valore della memoria. Ogni pezzo diventa un frammento di storia, una testimonianza artistica che ci ricorda come, attraverso il
ricordo e la rinascita, il passato continui a irrigare il presente di emozioni autentiche. Tutto il lavoro è straordinario: ogni traccia
è bellissima, un vero capolavoro stilistico ed emozionale. Il mio brano preferito è Mare Humorum; consiglio di ascoltarlo
lasciandosi andare, per immergersi in una riflessione sull’interiorità umana, dove pensieri, sentimenti e trasformazioni emotive
scorrono talvolta in maniera imprevista e irrefrenabile.
Stilisticamente, A Study of Losses spazia tra diversi generi, fondendo elementi di folk, indie e world music in un linguaggio sonoro
unico e riconoscibile. L’album abbraccia sonorità che vanno dal minimalismo, arricchito da delicate orchestrazioni, fino a
momenti di intensa emotività che richiamano lo spirito del folk mediterraneo. È un viaggio poetico e sonoro, in cui la musica
diventa un ponte che unisce la memoria a tutto ciò che è transitorio, vulnerabile e destinato a mutare senza stabilità duratura.
L’album parla della perdita non solo come fonte di dolore, ma anche come processo inevitabile che ci forma: ogni ricordo, anche
se breve, contribuisce a definirci, e il passare del tempo si trasforma in un’esperienza intensa, in cui momenti dimenticati
ritrovano vita grazie all’arte. La forza della memoria e dell’arte trasforma il passato in una promessa per il futuro.
Il cuore pulsante di Beirut rimane la figura carismatica di Zachary Condon, il cui talento come compositore e musicista guida
l’intero progetto. In questa avventura, la formazione si arricchisce di collaborazioni internazionali: spicca la presenza della
violoncellista Clarice Jensen, che con le sue interpretazioni regala profondità e calore alle orchestrazioni. Accanto a lei e ad altri
talentuosi musicisti, il sound di Beirut si caratterizza per l’armonico intreccio di strumenti tradizionali e arrangiamenti moderni,
capace di trasportare l’ascoltatore in una dimensione intrisa di nostalgia e speranza.
In definitiva, se ancora non vi è chiaro, si tratta di un album che consiglio vivamente di ascoltare: un’esperienza assolutamente imperdibile. Come spesso accade, non sono previste date live in Italia. Le prossime tappe annunciate – come riportato sul sito ufficiale – includono concerti a Utrecht, Bruxelles e Londra. Speriamo in ulteriori aggiornamenti e in nuove date per l’Italia in futuro.